Ricchizzi GaetanoSulla spalliera
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 70 x 52
osservazioni: a tergo biografia dell'artista


De Stefano ArmandoLa verità 1960
tecnica mista su tavola
firma e data: in basso a destra
misure: cm 70 x 48


De Stefano ArmandoRosa Rossa 1977
tempera su tela
firma e data: in alto a destra
misure: cm 51 x 61
osservazioni: a tergo firmato, datato e iscritto


Capaldo Rubens Nudo femminile 1973
olio su tela
firma e data: in basso al centro
misure: cm 100 x 70
osservazioni: opera sprovvista di cornice


Capaldo Rubens Una strada senza fine
olio su tela
firma: in basso al centro
misure: cm 40 x 30
osservazioni: a tergo iscritto


Asturi AntonioPescatore
tecnica mista su carta
firma: in basso al centro
misure: cm 35 x 49


Placido ErricoVerifica alle reti
olio su cartone
firma: in basso a sinistra
misure: cm 30 x 40
osservazioni: a tergo firmato e iscritto


Lippi RaffaeleSofia 1973
olio su tela
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 100 x 55
osservazioni: a tergo timbri galleria Mediterranea


Brancaccio GiovanniConfidenze 1933
olio su tela
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 80,5 x 50,5
osservazioni: opera sprovvista di cornice
Impiegato inizialmente in fabbrica come “disegnatore meccanico”, impiego giovanile di cui tuttavia si ritrovano tracce frequenti nella vasta produzione grafica di Giovanni Brancaccio, questi s’iscrisse solo in un secondo momento all’Accademia di Belle Arti di Napoli, solo dopo cioè aver frequentato il circolo di artisti guidato da Leon Giuseppe Buono, e colà come maestro dei suoi studi il nostro ebbe Francesco Galante. Forse più importante negli anni della formazione fu però lo studio attento e la copia priva di qualsiasi mediatore di opere dei vari musei della Campania, metodo di appropriazione di forme e poetiche delle grandi tradizioni passate che Brancaccio di fatto conservò peculiarmente per tutta la sua carriera, rifacendosi ora all’arte dell’età moderna, ora all’antichità (specialmente alle pitture murali antiche), senza mai tralasciare di aggiornarsi a quanto andavano facendo i suoi contemporanei. Divenuto scenografo sul finire degli anni Venti della compagnia di De Filippo, in un lungo sodalizio col mondo del teatro in generale che non mancò di avere ripercussioni su una sua certa produzione, Giovanni entrò a far parte in quegli stessi anni del “Gruppo Flegreo”, fondato nel 1927 con l’intento di fare di nuovo grande l’arte meridionale da giovani artisti ed esponenti ancora della grande tradizione partenopea tardo-ottocentesca: fu forse proprio questa incapacità ad affrancarsi dal passato a far allontanare alcuni, e fra questi il nostro, che preso si spostò fra coloro i quali, guidati da Lionello Balestrieri, si riunivano al Caffè Tripoli in Piazza del Plebiscito, ovvero gli “Ostinati”, gruppo che finì per aderire al Novecento di Margherita Sarfatti mantenendosi tuttavia di fatto su posizioni di compromesso, e perciò rimanendo ascrivibile tuttalpiù ad un generale ritorno all’ordine che comunque in quegli anni coinvolse tutte le arti in Italia ed Europa. Brancaccio ad ogni modo rispose agli appelli del critico francese Waldemar George operando un recupero delle forme volumetriche più essenziali nel corso della sua produzione degli anni ’30, e cioè nel periodo di nostro interesse considerata la datazione dell’opera proposta in asta, allorché si profondeva anche nell’arte della scultura, pervenendo ad esiti vicini in qualche modo ad Arturo Martini e Marino Marini; prime avvisaglie di questa specifica fase di ricerca dell’autore possono riscontrarsi nel “Ritratto del padre” e nello “Studio” (dipinti entrambi del 1927), quest’ultimo assai vicino per struttura compositiva alla tela qui in vendita nonché a varie altre opere (tutte realizzate entro il volgere degli anni Quaranta) in cui contrastano una figura in primo piano ed un’altra subito alle sue spalle, talvolta dissolta in una presenza quasi spettrale. I modelli “museali” di questo periodo sono stati identificati da alcuni con i grandi maestri del Cinquecento veneto, e da altri (forse più opportunamente) con il Seicento partenopeo ed in particolare con il locale caravaggismo, rielaborato da Brancaccio in un tonalismo «che gli farà prediligere i toni brunastri e perlacei» (Giorgio Di Genova), ben evidenti nel dipinto in asta; non si dimentichi inoltre a tal proposito l’influenza che sulla tavolozza del nostro può aver esercitato la sostanziale monocromia delle sue opere scultoree. L’intera produzione dell’artista di questo periodo, dai soggetti familiari, generalmente femminili, e dalle atmosfere intime e calme, lontane dalla concitazione generale di tanti colleghi contemporanei, piacque molto a Ugo Ojetti, che la propose a pittori più giovani come esempio di distanza dal cerebralismo e la tendenza all’allegoria tanto diffusa al tempo fra i maestri settentrionali. Si segnala infine che questa “Confidenze” del 1933, finora inedita ma opportunamente già registrata presso l’Archivio Giovanni Brancaccio, costituisce una versione alternativa di un’opera omonima esposta l’anno precedente alla Biennale di Venezia.


Notte EmilioNatura morta 1971
olio su tavola
firma e data: in basso a destra
misure: cm 60 x 70
osservazioni: a tergo timbri e cartiglio galleria Mediterranea


Notte EmilioNatura morta 1971
olio su tavola
firma e data: in basso a destra
misure: cm 50 x 60
osservazioni: a tergo timbro galleria San Carlo


Placido ErricoPaesaggio
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 30 x 40


White ValentinoMareggiata
olio su tela applicata su cartone
firma: in basso a destra
misure: cm 55 x 70


White ValentinoCapri
olio su tavola
firma: in basso a destra
misure: cm 40 x 30
osservazioni: a tergo cartiglio galleria Lauro


Lambiase WalterNatura morta 1976
olio su tavola
firma e data: in basso a destra
misure: cm 60 x 60


Grassi AlfonsoL'erede
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 40 x 40
osservazioni: a tergo cartiglio dell'artista


Girosi FrancoScavi
olio su cartone
firma: in basso a destra
misure: cm 40 x 50
osservazioni: a tergo cartiglio dell'artista


Ciletti NicolaBambini
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 49 x 35,5
osservazioni: a tergo bozzetto dell'artista


Villani GennaroSorrento 1943
olio su cartone
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 32 x 35,5
osservazioni: a tergo cartiglio galleria Mediterranea


Mercadante BiagioNatura morta 1935
olio su tavola
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 35,5 x 44


Villani GennaroDuomo di Milano
olio su cartone
firma: in basso a sinistra
misure: cm 32 x 32


Crisconio LuigiPiazza Tasso a Sorrento 1940
olio su tavola
firma e data: in basso a destra
misure: cm 26 x 31,5


Tafuri ClementePacchianella
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 65 x 70
Indubbiamente Clemente Tafuri fu debitore per la propria pur personale ricerca artistica verso la grande tradizione pittorica napoletana, continuando di fatto fino al secondo conflitto mondiale ed oltre lo stile e le tendenze affermatesi via via in città fra tardo Ottocento ed inizi Novecento, e guardando poi indietro fino al caravaggismo seicentesco per quanto riguarda il trattamento della luce sulle sue tele tramite intensi passaggi chiaroscurali, per cui appunto parti o dettagli vengono illuminati emergendo sulla superficie pittorica da fondi scuri e cupi. A questa grande scuola il nostro pervenne tramite la mediazione di Vincenzo Migliaro, il quale gli fu maestro all’Accademie di Belle Arti di Napoli (dopo un’iniziale formazione in ornamento decorativo presso un ignoto artista salernitano, genere che comunque Clemente non abbandonò col passare degli anni) e che, egli stesso grande rappresentante dell’Ottocento partenopeo, trasmetteva alle nuove leve gli insegnamenti di Morelli e Cammarano che sappiamo fossero assai legati alla figura di Michelangelo Merisi. Sarebbe comunque un grave errore ridurre Tafuri ad un tardo epigono di quanto s’andava già facendo decenni o addirittura secoli addietro, poiché egli innanzitutto seppe ammodernare e rielaborare personalmente tutte queste tendenze, ad esempio scegliendo una tavolozza dalle cromie tipicamente esuberanti, ed inoltre il nostro non smise mai di guardare a quanto veniva realizzato ai suoi tempi e di parteciparvi in prima persona, ad esempio operando come cartellonista pubblicitario o arrivando a creare coi dipinti suoi a tema militare una sorta di sottogenere artistico concretizzatosi in una lunga serie di cartoline per l’editrice Boeri subito riconoscibili come frutto della sua mano. L’opera proposta, autenticata dal figlio dell’autore, Lucio, si ricollega in ogni caso a quella succitata ed indiscutibile padronanza che Clemente ebbe di stile e soggetti tipici della pittura partenopea di fine diciannovesimo secolo, da ricercarsi in questo caso specifico nei modelli infantili e popolareschi offerti da Francesco Paolo Michetti piuttosto che da Antonio Mancini, al quale Tafuri molto spesso guardava; la pennellata è tipicamente sintetica, secondo un linguaggio espresso in tocchi di colore vivaci ed energici e «ricco di suggestive lumeggiature quasi materiche» (E. Lago).


Bocchetti GaetanoPulcinella
olio su tela
firma: in basso a destra
misure: cm 40 x 30
osservazioni: a tergo firmato e dedicato


Catelli CamilloPaesaggio 1970
olio su cartone
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 36 x 52


Bocchetti GaetanoAllo specchio
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 50 x 40


Tamburrini AmerigoVilla comunale di Napoli
olio su cartone
firma: in basso a sinistra
misure: cm 23 x 34


Striccoli CarloSotto la pergola
olio su tavola
firma: in basso a destra
misure: cm 27,5 x 37,5
osservazioni: a tergo bozzetto dell'artista


Bresciani AntonioVolto femminile
olio su cartone telato
firma: in basso a sinistra
misure: cm 35 x 32


Toro AttilioTestina
olio su tavola
firma: in basso a destra
misure: cm 27,5 x 21
osservazioni: a tergo cartiglio galleria Lauro


Sablautzky Alfredo Marina
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 40 x 50
osservazioni: a tergo timbro galleria Lauro


Brando AngeloFigura femminile
olio su cartone
firma: in basso a sinistra
misure: cm 49,5 x 36


Viti EugenioMarina
olio su cartone
firma: in basso a sinistra
misure: cm 32,5 x 45
osservazioni: a tergo bozzetto dell'artista


Girosi FrancoAlberi 1948
olio su tela
firma e data: in basso a destra
misure: cm 59 x 70


De Corsi NicolasMarina
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 22 x 28


Galante FrancescoPescatori a Mergellina
olio su tela
firma: in basso a destra
misure: cm 40 x 50
osservazioni: a tergo firmato e iscritto


De Corsi NicolasMarina 1919
olio su tela
firma e data: in basso a destra
misure: cm 76 x 101
osservazioni: a tergo autentica di Alfredo Schettini
La vita e la carriera di Nicolas De Corsi sono ammantate da una nebulosa coltre di mistero a causa delle scarse notizie che possediamo in merito. Sappiamo per certo che il nostro, figlio del Console italiano a Odessa e di una donna del posto, si trasferì presto in Spagna in seguito alla morte del padre e alle seconde nozze della madre, dopodiché un ampio vuoto nella biografia dell’artista è stato di volta in volta colmato con svariate supposizioni, talvolta al limite del picaresco: qualcuno ha sostenuto infatti che il giovane fuggì unendosi ad una carovana di zingari e vagò un po’ per tutta la penisola iberica vivendo di schizzi e ritratti venduti in giro; per quanto non verremo probabilmente mai a conoscenza della verità, l’arrivo in Italia è documentato nel 1896 ed il successivo trasferimento a Napoli fu, come è stato recentemente ipotizzato, probabilmente dovuto al basso costo della vita, considerando che già Alfredo Schettini sottolineava le cattive condizioni economiche dell’artista e di sua madre, rimasta vedova anche del secondo marito. La vecchia capitale borbonica fu in ogni caso una meta fortunata per De Corsi, che prima di incontrate il suo celeberrimo mecenate e protettore, il Conte Giuseppe Matarazzo di Licosa, suscitò presto le simpatie di Achille Minozzi, tramite per l’incontro fra il nostro e Gaetano Esposito, probabilmente l’unico maestro che Nicolas ebbe nella sua generale carriera da autodidatta, stando a quanto si potrebbe dedurre da alcune notizie pervenuteci; del resto questi due grandi maestri della pittura campana senza dubbio condivisero un viscerale amore per la costa locale ed il mare, sebbene il tumultuoso pathos di Esposito lasci solitamente il posto in De Corsi ad una calma serena e talvolta vagamente malinconica. L’opera proposta, che pure costa e mare ritrae, si data ad una fase già matura del suo autore, abbandonato ormai l’evidente divisionismo dei primi olii (sebbene una certa pittura a tache di colore non fu mai abbandonata del tutto), e per descriverne efficacemente l’atmosfera non ci vengono parole migliori di quelle messe tempo fa nero su bianco già dal succitato Schettini: «con un sole sordo, da temporale imminente che rischiara l’immobile foschia dell’aria pesante; e le barche da pesca, […] e tutti quei suoi cieli di un’intensa opacità azzurrina sulle marine densamente liquide, oleose e dorate».


Galante FrancescoAdolescente al Monte di Dio 1924
olio su tavola
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 49 x 38


Pratella AttilioNei campi
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 20,5 x 13,5


Ferrario LindaPassione
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 90 x 70


Borgoni MarioBrezza marina 1926
tecnica mista su carta
firma e data: in basso a destra
misure: cm 71 x 105
Formatosi presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli fin dal 1883 sotto la guida soprattutto di Ignazio Perricci, Mario Borgoni subito s’avviò alla decorazione proprio come il suo maestro, col quale ancora molto giovane collaborò per gli affreschi della sala da pranzo del Palazzo Reale di Monza; a Napoli invece sono di sua mano ed ancora visibili (considerando che vari edifici su cui l’artista ebbe modo di intervenire sono ormai perduti) due riquadri del soffitto della Presidenza della Camera di Commercio. All’attività di decoratore, evidentemente perpetuata per tutta la sua vita, Borgoni comunque affiancò presto la pittura di quadri, seguendo in un primo momento gli stilemi del realismo napoletano di stampo soprattutto morelliano, e poi le tendenze simboliste sempre più diffuse nella Napoli di fine secolo, cui probabilmente si deve l’attenzione dell’artista per le figure femminili, frequentissime nella sua produzione. Le donne, sorridenti e dalle forme morbide, appaiono dunque di sovente anche nelle opere di grafica pubblicitaria di Borgoni (certo più numerose dei rari dipinti da cavalletto), genere in cui il nostro si dedicò quasi completamente dai primi anni del Novecento, divenuto egli direttore artistico dello stabilimento Richter, attingendo stavolta dal repertorio del Liberty italiano e dall’Art Nouveau di Alphonse Mucha.
L’opera proposta appartiene ovviamente alla più tarda attività del suo autore considerando la data che essa riporta, e richiama dunque nel suo stile evidentemente certe peculiarità del cartellonismo pubblicitario di inizio Novecento (in effetti non si esclude che possa aver costituito un modello proprio per una qualche réclame). Notevole ed anzi stupefacente è l’ariosità che luce e colore del pastello riescono a conferire alla scena, dando la sensazione all’osservatori di trovarsi effettivamente in riva al mare, invitato dalla gioiosa e prorompente modella di proporzioni non troppo distanti dal vero.


Casciaro GiuseppeFiori 1922
olio su tavola
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 58,5 x 56,5


Casciaro GiuseppeSeiano 1915
olio su tavola
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 39 x 49


Todeschini PieroComplice il sonno 1926
olio su tela
firma e data: in basso a destra
misure: cm 53 x 46
osservazioni: a tergo cartiglio bottega d'arte Salvetti


Loria VincenzoMarina
acquerello su carta
firma: in basso a sinistra
misure: cm 29 x 45


Pratella AttilioPaesaggio
tempera su cartone
firma: in basso a sinistra
misure: cm 23 x 35


Chiarolanza GiuseppeNotturno 1900
olio su tela
firma e data: in basso a destra
misure: cm 54 x 103,5
Membro purtroppo della folta schiera di artisti a lungo dimenticati dalla critica novecentesca, Giuseppe Chiarolanza studiò al Real Istituto di Belle Arti di Napoli fin dal 1881, e ivi diventò allievo prediletto del paesaggista Alfonso Simonetti; dedicandosi dunque come assai spesso accadeva allo stesso genere del proprio maestro, il Chiarolanza indirizzò presto la propria ricerca verso la pittura di paesaggio, e le fonti ne lodano la perizia nella rappresentazione di alberi e boschi, fra cui spiccano varie e più o meno celebri raffigurazioni del bosco di Capodimonte. Fra queste ultime è significativo che una fosse dedicata ed appartenesse effettivamente a Raffaele Belliazzi, membro della Scuola di Resina, poiché sono gli stilemi di quest’ultima che il Chiarolanza, attento osservatore del vero naturale e soprattutto delle variazioni della luce nel paesaggio, poi tradotte in una pittura di macchia, pare proseguire.
L’opera proposta nel rispetto delle peculiarità del proprio autore appena succitate nonché nel generale e forte afflato malinconico potrebbe in effetti ricollegarsi alle produzione degli artisti porticesi (si pensi a certi dipinti di Federico Rossano), non scevra tuttavia di un certo lirismo (tipicamente proprio del resto del notturno) che potrebbe risalire la storia dell’arte partenopea dell’Ottocento fino alla grande Scuola di Posillipo. Un ulteriore, possibile modello infine potrebbe ricercarsi nel grande maestro del vero naturale del tempo, ovvero Filippo Palizzi, qualora si volesse accostare la rupe ritratta dal Chiarolanza con quella celebre “roccia di Sorrento” su cui appunto Palizzi adagiò la sua sognante popolana, ispiratrice più di un secolo dopo della bella statua raffigurante la “Spigolatrice di Sapri” che oggi possiamo ammirare sullo scoglio dello Scialandro.


Irolli VincenzoBimba nella neve
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 60 x 50
Vincenzo Irolli fu l’ultimo, vero artista appartenente alla grande tradizione ottocentesca locale in grado di trascinare quest’ultima fino alla metà del secolo successivo, e questo suo viscerale amore fu inviso a molti, a coloro cioè che ansiosi di aggiornare gli ambienti culturali partenopei alle nuove tendenze italiane e straniere mal vedevano quelle gioiose ma ostinate sopravvivenze del realismo e del colorismo cui fu caratteristicamente improntata la pittura napoletana e meridionale della seconda metà del diciannovesimo secolo. Insomma Irolli tardò molto ad affermarsi presso la critica locale, riuscendovi solo intorno alla fine del primo conflitto mondiale, mentre paradossalmente il suo successo presso i collezionisti, locali (evidentemente incuranti dei conterranei teorici militanti) o stranieri che fossero, non ebbe mai modo di arrestarsi fin dai suoi esordi pittorici. Il giovane Vincenzo sviluppò grande interesse per le arti quando, come riporta il Giannelli, ebbe modo di visitare la fondamentale Esposizione nazionale tenutasi a Napoli nel 1877, ove egli ammirò la “Processione del Corpus Domini” di Michetti, i “Parassiti” di D'Orsi e le prime prove pittoriche di Antonio Mancini, che in quella occasione esponeva “Ama il prossimo tuo come te stesso” e “Figli di un operaio”; a quel punto il nostro prese la decisione d’iscriversi all’Accademia di Belle Arti locale, divenendo allievo dapprima di Antonio Licata e Federico Maldarelli ed in un secondo momento di Gioacchino Toma e Stanislao Lista. L’attenzione alle opere manciniane va comunque sottolineata perché ha dato adito nel tempo ad una lunga querelle ancora una volta fra vari critici circa la sostanziale o meno originalità dell’Irolli, secondo alcuni appunto troppo improntato nel proprio stile su certi esiti del Mancini: a tale questione pare porre un punto definitivo Luigi Manzi nella sua nota ed ampiamente documentata biografia del nostro artista. La genuina spontaneità di Irolli, felicemente sottolineata dal Manzi, emerge con variabile efficacia da una ricchissima produzione di genere incentrata su fanciulli, sorridenti figure femminili o entrambi questi soggetti, composti in episodi tipici della maternità assai teneri e di immediata piacevolezza, nonché di «rutilante vivacità cromatica, grazie a una tecnica pittorica abilissima nell'alternare effetti di minuta e puntuale verosimiglianza ottica con più libere deposizioni materiche di colore, in una fantasia di macchie e di contrasti luminosi» (Monica Vinardi). La tela (spessa, come piaceva all’autore) proposta in asta è certo ascrivibile a questo filone irolliano, sebbene tradisca l’adozione di un linguaggio più fluido e rapido, databile almeno agli anni ’20 del Novecento e concretizzato in pennellate larghe e piatte, senza ritorni, che per Rosario Caputo «lasciano il colore fresco e brillante» mentre per Alfredo Schettini rischiano di operare di fatto «una semplificazione nella quale, inavvertitamente, scapitavano le innate qualità formali e l’equilibrio totale del colore». La preparazione arancio, cara ad Irolli, qui si fa parte attiva della composizione nel restituire la luce del primo mattino che modella le nubi in allontanamento dopo la nevicata notturna, e gli alberi spogli sono appena accennati dal gesto pittorico, lasciandone il completamento percettivo agli occhi dell’osservatore: questi sono segni identificativi di un indiscutibile Maestro. Il dipinto proposto, che riprende chiaramente il soggetto della celebre opera in copertina della succitata biografia di Luigi Manzi, si pone con quella tela nel medesimo rapporto sussistente ad esempio fra “Piazza San Marco” e “Caffè Florian” (anche in quest’ultimo caso non tutta la tela viene coperta dalla materia pittorica), secondo un uso comune di Irolli di ripetersi anche a diversi anni di distanza. L’altro olio in asta, curiosamente realizzato su pelle poiché parte originariamente di una tipica tamburella napoletana, segue stilemi irolliani ancora tardo-ottocenteschi ed è dedicato ad un non ben identificabile Marchese Rivellini, testimoniando dunque il proprio passaggio in una prestigiosa collezione privata del beneventano (la nobile famiglia proveniva infatti da Vitulano).


Irolli VincenzoProsit 1916
olio su pelle
firma e data: in alto a sinistra
misure: diametro cm 28


Esposito GaetanoVolto femminile
matita grassa su carta
firma: in basso a destra
misure: cm 47 x 32
osservazioni: a tergo bozzetto dell'opera


Tofano EdoardoDama
acquerello su carta
firma: in basso a sinistra
misure: cm 30 x 18


Carelli ConsalvoRitorno da Montevergine
olio su tela
firma: in basso a destra
misure: cm 63,5 x 38,5
Nato sulla collina dell’Arenella, nella stessa casa che si dice fosse stata di Salvator Rosa, Gonsalvo Carelli pure parve destinato a compiere grandi cose in campo artistico: primogenito di una famiglia tutta di artisti, egli infatti appena dodicenne cominciò la propria attività espositiva, subito ottenendo peraltro una medaglia d’argento; tale evento, più unico che raro, pare addirittura che gettasse un qualche scompiglio in famiglia, se è vero che certi malignarono circa una presunta superiorità del fanciullo sull’arte del padre Raffaele, suo maestro ma soprattutto pittore al tempo già maturo e di grande esperienza. Fatto sta che Gonsalvo, ancora assai giovane, approfittò di un pensionato per stabilirsi in Roma, ove fu a breve raggiunto dal fratello Gabriele (del più piccolo dei tre, Achille, si hanno ben poche notizie) e dove, frequentando Bartolomeo Pinelli, il nostro poté perfezionare la tecnica dell’acquerello e dello schizzo a penna; a Roma, soprattutto, il Carelli conobbe e fraternizzò con gli allievi dell’Accademia di Francia, forse il primo, vero contatto con ambienti artistici esteri che il nostro ebbe poi modo di frequentare a lungo nel corso della sua vita, ricevendo prestigiose commissioni ed attestati di stima da nobili e sovrani: a Parigi negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo per intercessione della regina madre Isabella di Borbone, ad esempio, e colà protetto da Maria Amelia di Francia, Gonsalvo finì poi per dipingere finanche per lo zar di Russia. I favori reali comunque non durarono eternamente, poiché allo studio dell’arte sua Carelli affiancò un testardo impegno politico, partecipando pare prima alle Cinque giornate milanesi e poi combattendo (notizie certa) insieme a Garibaldi e i suoi: il nostro insomma fu costretto per più di un decennio ad una vita peregrina per sfuggire alla polizia borbonica, e sono nel tardo Ottocento egli riuscì a tornare in patria, trovando peraltro un ambiente artistico scosso da tendenze nuove e ben diverse dal suo tradizionale fare pittorico. Le opere del Carelli infatti sono generalmente tutte di composizione, ove cioè elementi certo ripresi dal vero naturale sono composti con una fervida e prolifica immaginazione in scene di assoluta invenzione (secondo i dittami insomma del paesaggismo ancora tardo-settecentesco e ben distante da quanto andavano facendo già dalla metà del diciannovesimo secolo i fratelli Palizzi), e l’opera proposta non fa certo eccezione: il carretto sovraccarico di un vasto catalogo di tipi popolari torna infatti con poche variazioni in più opere dall’autore e di altri membri della sua famiglia, sebbene in questo caso la cura profusa nella sua più minuziosa raffigurazione sia straordinaria; questo soggetto ricorda inoltre la collaborazione che il Carelli intrattenne per un certo tempo con Salvatore Di Giacomo, realizzando l’artista le illustrazioni di alcuni testi di quest’ultimo, e traduce su tela la diffusa tradizione popolare della «juta» (da «sajuta») a Montevergine, pellegrinaggio al celebre santuario mariano da compiersi rigorosamente in carretto, fermandosi di tanto in tanto in tappe ove i locali avellinesi offrono accoglienza e ristoro ai viandanti.


Carelli RaffaelePescatore 1818
acquerello su carta
firma e data: in basso a sinistra
misure: cm 27 x 19




Dalbono EdoardoMercato a Via Tribunali
acquerello su carta
firma: in basso a destra
misure: cm 46 x 32
osservazioni: a tergo timbro galleria Fogliato
Nato in una famiglia benestante (evento meno comune di quanto si pensi per un artista del diciannovesimo secolo) e già addentro al mondo dell’arte (il padre Carlo Tito e lo zio Cesare furono letterati e critici), Edoardo Dalbono poté attingere fin da giovanissimo al vasto materiale presente in casa propria e soprattutto gli fu concesso approfittare della fitta rete di contatti che i suoi avevano nel tempo tessuto con vari, grandi artisti dell’epoca: appresi i primissimi rudimenti in Roma da Augusto Marchetti e Nicola Consoni, nella sua città natale Napoli il nostro studiò prima sotto il pittore d’Elia (o De Lia) e più tardi prese a frequentare lo studio di Nicola Palizzi e Giuseppe Mancinelli, mentre faceva la conoscenza dei vari posillipisti ancora in vita a casa della famiglia Carelli. L’elencazione di tanti personaggi illustri non è qui vana, poiché spiega esattamente i molteplici spunti che Edoardo ricevette nel corso della sua formazione da altrettante esperienze artistiche, improntando così la propria ricerca personale su direzioni talvolta anche assai distanti fra loro. Considerato infatti già al tempo (e argutamente) un tardo continuatore della grande Scuola di Posillipo, coi rappresentanti della quale certo Dalbono condivise uno spirito altamente lirico, sconfinando talvolta con un gusto tutto suo nel fantastico vero e proprio (si pensi al grande capolavoro dell’artista, “La leggenda delle Sirene”), il nostro s’interessò pure alla pura di macchia tipica della Scuola di Resina, frequentando fra l’altro per i propri studi e dipinti gli stessi luoghi in cui si recava generalmente proprio il gruppo di Portici; d’altro canto Edoardo stesso lodava in accorate missive Domenico Morelli, che notoriamente ai porticesi era avverso, e le innovazioni che il grande maestro andava apportando in pittura, spesso identificate con grande sottigliezza e sensibilità. Fu comunque Morelli stesso o forse Giuseppe De Nittis a presentare il nostro ad Adolphe Goupil, con conseguente stipula di un contratto durato otto o nove anni, fino alla morte del celebre mercante francese. Oltralpe, comunque, Dalbono non soggiornò mai a lungo, provando una profonda malinconia e mancanza della propria, adorata città, come si evince da varie sue lettere: questo legame pare in effetti fosse assai viscerale, come se ne incontrano di rado, e probabilmente va fatto risalire già alla più tenera età dell’artista, quand’egli ascoltava le composizioni poetiche popolaresche del padre, profondamente radicate nelle tradizioni e nei costumi partenopei. Anche l’opera proposta rientra chiaramente nella produzione che l’autore ha per tutta la sua carriera dedicato alla propria città, raffigurando un mercatino che evidentemente doveva abitualmente tenersi sotto i portici di Via Tribunali, con svettante sullo sfondo il romanico campanile della Pietrasanta, eretto nel corso del secolo undicesimo riutilizzando elementi del preesistente tempio romano della dea Diana; il porticato invece potrebbe identificarsi con quello gotico di Palazzo d’Angiò, “assemblato” da costruzioni più antiche nel Trecento e nel tempo proprietà di volta in volta di varie famiglie nobili cittadine, fino ad ospitare per un certo periodo finanche l’Accademia Pontaniana. Le protagoniste della scena sono come spesso accade fra le opere di Dalbono esclusivamente donne, schiettamente popolaresche e vagamente seducenti nella loro procace femminilità. Caso non isolato nella produzione dalboniana, l’opera in asta costituisce infine una versione ad acquerello di un soggetto già noto, presente ad olio su tela e di simili dimensioni nella prestigiosa collezione pescarese Di Persio e datata con accreditabile ipotesi fra gli anni Settanta ed Ottanta del diciannovesimo secolo.


Caprile VincenzoBambina 1878
olio su tela applicata a cartone
firma e data: in basso a destra
misure: cm 67 x 35


Cercone EttoreOdalisca
olio su tela
firma: in alto a sinistra
misure: cm 100 x 70


de Sanctis GiuseppeProfilo femminile
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 50 x 31
Solo grandi cose potevano attendere colui che fu tenuto a battessimo addirittura dal grande Giuseppe Verdi, ed in effetti la carriera di Giuseppe de Sanctis fu costellata di successi ed apprezzamenti, in particolare nella natia Napoli, ove la mano del pittore è ancora visibile in alcuni decorazioni del Gran Caffè Gambrinus (noto cantiere per tanti artisti locali nel tardo Ottocento) nonché del Circolo Artistico Politecnico, che il nostro frequentò assai assiduamente lasciando splendidi ricordi negli altri avventori.
Indirizzato inizialmente alle scene di composizione storica o orientale, seguendo l’evoluzione dell’arte del suo grande maestro Domenico Morelli, de Sanctis risentì poi fortemente delle tendenze diffuse al suo tempo in Francia ed Inghilterra, ove il pittore viaggiò molto incontrando personaggi del calibro di Gérôme e Alma-Tadema, nonché il celeberrimo mercante Goupil.
L’opera proposta ben esemplifica un altro grande talento che poi il suo autore sviluppò nel corso della propria carriera, ovvero la grande abilità nel ritratto: pur non potendo infatti risalire con certezza alla fanciulla di schietta bellezza qui ritratta, è magistrale la resa dei suoi lineamenti e del suo cipiglio, pensieroso e severo ad un tempo. Ancora più sorprendente è la grande modernità che spicca nella porzione inferiore della tela, ove le vesti della modella sono panneggiate con grande sintesi pittorica, a ricordare la rapidità d’esecuzione ai tempi del de Sanctis di gran moda nei territori d’Oltralpe fra gli altri artisti suoi conterranei o stranieri.


Migliaro VincenzoLuciana
olio su tela
firma: in basso a destra
misure: cm 32 x 24
osservazioni: a tergo timbro galleria Giosi


Postiglione SalvatoreLe fascine
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 79 x 50
La breve vita di Salvatore Postiglione ha reso la sua produzione assai più limitata di quella del ben più prolifico fratello Luca, riducendo poi a lungo l’interesse per il nostro da parte della critica novecentesca. Indubbia è infatti l’importanza che Salvatore ebbe nel panorama artistico partenopeo, considerando la presenza delle sue rare ma assai lodate opere in prestigiose raccolte italiane, oppure l’impegno nelle decorazioni non solo del Gran Caffè Gambrinus o della napoletana Camera di Commercio, ma anche del triestino castello di Miramare o di villa Scarpetta. Salvatore apprese i primissimi insegnamenti d’arte dal padre, scomparso tuttavia prematuramente, per poi studiare sotto lo zio Raffaele, e da questi il nostro fu inizialmente indirizzato verso una pittura di storia ancora tardo-romantica. Il giovane artista tuttavia non restò insensibile alle nuove poetiche del vero che andarono diffondendosi nell’ambiente artistico locale a metà Ottocento, ed anzi vi aggiornò la propria ricerca, come testimonia l’opera in asta, che poi esemplifica pure l’interesse dell’autore per il ritratto. Abbandonati dunque i costumi storici, Postiglione volse il proprio sguardo a più spontanei soggetti popolareschi, virando poi la propria tavolozza verso i toni terrei tipici piuttosto della coeva Scuola di Resina; fra queste cromie tanto più spiccano allora i piccoli tocchi blu e rossi che incorniciano il volto della giovane modella, gli unici, vezzosi lussi ch’ella si concede.


Carcano FilippoPaesagggio
olio su tavola
firma: in basso a sinistra
misure: cm 9,5 x 18


Valdoni AntonioPaesaggio 1874
olio su tela
firma e data: in basso a destra
misure: cm 42 x 69


Milone AntonioPastorella con animali
olio su tela
firma: in basso a sinistra
misure: cm 50,5 x 63,5


Carelli GiuseppeLa difesa del fieno (da Filippo Palizzi)
olio su tavola
firma: in basso al centro
misure: cm 26 x 43


Brancaccio CarloPalazzo Donn'Anna
olio su tela
firma: in basso a destra
misure: cm 47 x 70
Nel generale clima che sul finire del diciannovesimo secolo andò diffondendosi a Napoli emulando i gusti d’Oltralpe della Belle Époque, con ovvie contaminazioni dello stile Liberty italiano, Carlo Brancaccio fu celebre e felice rappresentante di quel filone pittorico che trasportò nei primi decenni del Novecento la grande tradizione ottocentesca partenopea, impermeabile ai nuovi movimenti che scuotevano arte e vita a cavallo del primo conflitto mondiale. Avviato a studi matematici, il giovane Carlo li abbandonò ventiduenne nel 1883, ovviamente in opposizione ai voleri familiari, per dedicarsi alla pittura: non abbiamo ora informazioni sufficienti sulla formazione del giovane artista, così come non ne possediamo molte in realtà sulla sua vita in generale, ma è certo che egli fu per lo più autodidatta, caratteristica che dona ulteriore lustro agli esiti di assoluta qualità cui pervenne, con qualche occasionale consiglio o insegnamento datogli da Edoardo Dalbono, il quale il nostro conobbe in circostante non chiare. L’influenza di questo grande maestro fu comunque fondamentale, poiché fra il lirismo sognante di questi ed il più rigoroso realismo di Vincenzo Migliaro (ovvero fra le due temperie che al tempo mantenevano ancora in vita la tradizione napoletana dell’Ottocento) Brancaccio tese evidentemente verso la prima soluzione, seppur trovando un qualche equilibrio fra questa e la seconda tendenza: se infatti volessimo mettere un attimo da parte il ricco filone di vedute parigine e londinesi, maturate nei molti viaggi dell’autore e soprattutto nel corso del suo lungo soggiorno nella Ville Lumière, e che gli diedero grande successo estero consacrandolo nel mercato collezionistico internazionale, le scene brulicanti di vita popolare e le marine campane trasudano autentica poesia, ricollegandosi al succitato spirito tutto personale del Dalbono e tramite questi alla grande Scuola di Posillipo di inizio diciannovesimo secolo. Domina in tutte queste opere una indubbia eleganza tonale, giocata su raffinati contrasti cromatici e mai turbata da violenze coloristiche, come si può del resto ammirare in entrambe le opere proposte in asta. Di queste la prima, dall’atmosfera sognante e ariosa, rappresenta il caratteristico Palazzo Donn’Anna, progettato nel Seicento da Cosimo Fanzago per volere di Anna Carafa ma mai compiuto, così che per secoli esso rimase una suggestiva rovina sulla quale negli anni dell’autore Matilde Serao tessé leggende e Gaetano Esposito riversò i propri tormenti: nota infatti è la gelosia che questo grande maestro dell’Ottocento covava per la propria dimora, per quanto diroccata ed inospitale essa fosse. La più piccola tavola invece, che coi suoi toni trasmette perfettamente l’albeggiare fresco e stanco che soffusamente illumina Napoli nelle prime ore del giorno, lasciando immaginare una giornata serena ed assolata, coglie uno scorcio cittadino purtroppo non più visibile ma caro a vari contemporanei del Brancaccio (si ricordi una splendida opera di simile soggetto dipinta da Attilio Pratella ed ispirata con ogni probabilità da una fotografia del tempo): la spiaggia della Marinella infatti, situata all’altezza grosso modo di Piazza Mercato, non esiste più da tempo, così come il vicino Borgo Loreto, così chiamato per la chiesa di Santa Maria del Loreto ed area anticamente quasi disabitata ma ricca di mulini, oggi parzialmente occupata dal grande ospedale “Loreto Mare”.


Brancaccio CarloAlba alla Marinella
olio su tavola
firma: in basso a destra
misure: cm 56 x 29
osservazioni: iscritto in basso a sinistra

